Una vita nuova con i miei figli
Non mi rimane facile usare carta e penna, anzi è una cosa odio fare, perché è come stare di fronte ad uno specchio, e parlare molto francamente con te stesso.
Ho fatto molte battaglie per questa cosa con Gianni e Angela, gli operatori del KAIROS, che mi hanno seguita nella mia entrata in programma.
Non ero molto mansueta su questa cosa e loro mi hanno sempre confrontata sul perché.
La mia entrata in programma è stata inizialmente dovuta solo ai miei figli, lo stimolo principale è stato l’allontanamento di mio figlio da me e il padre, il dolore della sua perdita è stato più forte dell’eroina che mi sconvolgeva la mente e pensavo quanto tutta la mia tossicodipendenza abbia sconvolto la mia vita e abbia costretto mio figlio a stare in quella condizione.
Fortunatamente il tempo in cui è stato coinvolto è stato breve anche se intenso. Tutt’ora dopo tre anni di programma mi chiedo: “ma ero veramente così fragile là fuori?” o era solo la scusa per fare quella vita perché ora da lucida mi dico che in tutto il mio percorso di batoste ne ho prese tante eppure sono qui ad affrontare il mondo con i miei figli. E per quanto io possa dire, questo è possibile per il mio coraggio e la mia tenacia.
Sicuramente in questo tempo trascorso accanto a delle persone che mi hanno aiutato ad alzare l’autostima di me stessa, sono riuscita ad affrontare le situazione difficile in un altro modo, che forse un tempo per codardia o per la troppa solitudine non ho perso neanche tempo ad imparare.
Mi rimaneva più semplice anestetizzare tutto con l’eroina, ma allora ero sola OGGI NO, ho alle spalle delle persone che amo e che stimo, la mia famiglia, poi i miei due splendidi angeli che mi hanno aiutato e stimolato in questo, loro ancora non sanno che la battaglia l’abbiamo fatta insieme, nonostante così piccoli ed ignari di tutto quello che accadeva hanno aiutato la loro mamma ed io adesso devo la mia vita a loro perché ora più che mai so quanto essa vale.
Non nego che molte volte nella mia mente mi sono detta basta, non ce la faccio più, tanto non li rivedo più.
Questo accadeva soprattutto nel periodo che non vedevo l’altro mio figlio; io, è vero non sono una gran praticante di chiesa, ma credo che ci sia una forte entità sopra di noi che è in grado di modificare la nostra vita in base a delle regole divine a noi tutt’ora ignote, ma va bene così non a tutto dobbiamo spiegazioni.
Io posso dire che rivedendo mio figlio, ho deciso di riprendermi la mia vita, e qua mia madre penso abbia avuto una gran parte del destino mio e dei miei figli, lei morì in quel giorno e a me diede la possibilità di rinascita.
Decisi subito di chiamare la sorella di mia madre, penso l’unica e la sola a cui mia madre ha affidato la sua vita; da quel momento è stata disposta a sacrificare la sua vita che era una vita famigliare normale, serena anzi forse piena di problemi anch’essa, eppure io sapevo che era l’unica persona che sarebbe stata al mio fianco come una madre e lo ha fatto dal primo giorno che sono entrata in comunità ad oggi.
Non ero un tipino molto mansueto quando mi facevo di eroina, anzi credevo di essere superiore a tutti e di poter prendere in giro il mondo intero.
Ero una persona non molto bella e oggi ripensandoci mi faccio un po’ schifo e non posso credere che abbia messo la mia moralità e i miei valori sotto i piedi eppure è così.
Il mio percorso è stato lungo e tortuoso con le mie alzate di testa, il mio orgoglio che mai ha abbassato la guardia, così facendo tante volte ero in ufficio al Kairos a fare chiarimenti e confronti con i ragazzi che facevano comunità con me e gli operatori.
All’inizio mi ripetevo continuamente il perché fossi là, come ero arrivata a tanto ed è stato duro permettere a delle persone che io non conoscevo di prendermi per mano e cominciare a mettere in discussione la mia vita.
Per un periodo mi sembrava di essere un extraterrestre atterrato in un altro pianeta, era tutto così strano, difficile da capire, soprattutto le “regole”: questa parola dopo la morte di mia madre era scomparsa e adesso per me a 30 anni, mamma di due bimbi era una bestemmia.
Posso anche dire di aver avuto dei compagni da cammino che non dimenticherò mai: con loro ho iniziato un percorso detto “alternativo” con delle regole ancora più dure e delle pretese più alte perché sarebbe stato sì un percorso breve, ma intenso, vissuto, affiatato, con dei momenti in cui tanti sentimenti invadevano la nostra pancia ed era duro fare il raffronto con delle persone che entravano in accoglienza, ancora imbottiti di metadone e quindi anestetizzati.
Io per quanto mi riguarda ho voluto fare uno scalaggio molto veloce per poter entrare nel gruppo di Carmelo (un operatore della comunità di reinserimento, ndr); riusciva sempre a trasmettermi nei colloqui una grande tranquillità e una sicurezza che mai nessuno degli operatori era riuscito a fare.
I nostri gruppi per noi erano speciali, liberatori, magici, ma altrettanto mi facevano paura e mi creavano ansia e tutte le volte, il giorno che sapevo che si svolgeva, la mia pancia era in subbuglio un fascio di contrazioni e spasmi.
E poi a questo si aggiungevano le visite dei miei due figli, e questo rendeva il mio percorso più difficile e tortuoso, dovevo lavorare per me e per me mamma.
Ricostruire il rapporto con mio figlio e riuscire a mantenere con costanza il rapporto con l’altro mio figlio, che era talmente piccolo e cercare di non creare una spaccatura, un dubbio, una mancanza verso di loro; in alcuni momenti pensavo proprio di non farcela.
Quando sono iniziate le visite con mio figlio è stato duro accettare la sua rabbia, il suo rifiuto verso di me, il non nominarmi, io che lo avevo tenuto al mio fianco fino all’ultimo quando me lo hanno strappato dalle braccia e forse proprio lì mio figlio ha conosciuto l’odio, quando nell’aprire gli occhi si è trovato persone sconosciute e non la sua mamma.
Povero amore mio, il dolore sarà stato lacerante e questo io ancora non me lo perdono.
Fortunatamente, non lo dico così, lo dico quasi urlando ora: anche se un tempo tutte le persone che mi stavano vicino erano nemici, devo dire grazie a loro e a una persona come Fabiana (oggi la responsabile dell’Area Minori, ndr) che nonostante le mie resistenze è andata oltre e in quel momento mi ha fatto capire che a mio figlio dopo l’allontanamento da me, a quando ci siamo rivisti, mancava un pezzettino della nostra vita che era andata avanti nonostante tutto, la mia pancia, il suo piccolo fratellino.
Ne parlavamo spesso quando stavamo insieme, giocava sopra la mia pancia ed era consapevole della presenza di un altro fratellino; era deluso di avermi rivisto senza il fratello e non aver ricevuto da me alcuna spiegazione di dove fosse.
Stavo malissimo in quel periodo e grazie a Fabiana, che è riuscita ad aiutarmi, ad arrivare a mio figlio nel modo più corretto, le cose sono cambiate: i due fratelli si sono incontrati e riconosciuti, mio figlio mi accoglieva di nuovo, mi chiamava, giocava con me ed era pronto ad aprire le braccia quando mi vedeva.
Sì, mio figlio mi aveva ridato fiducia, certo era dura per entrambi vederci ogni 15 giorni e sentirci per telefono una volta alla settimana.
Poi arriva finalmente l’evolversi del progetto ed il mio cambio di comunità: sono andata a raggiungere mio figlio alla Paides (la comunità educativa per bambini e mamme dell’OIKOS, ndr).
I miei sentimenti verso questo cambiamento erano contrastanti perché ero al settimo cielo di svegliarmi la mattina vicino a mio figlio e la sera poterlo di nuovo accudire e creare quell’intimità fra me e lui che si era persa.
Ma c’era altrettanta paura di dover ricominciare da capo, relazioni con persone nuove, regole diverse, io da sola in un contesto a me sconosciuto, in più mio figlio che non riusciva a leggere i miei sentimenti, perché non li conosceva e si sarà domandato che cosa stava accadendo e io dovevo essere pronta ad accogliere i suoi bisogni.
L’impatto con gli educatori non è stato dei migliori, perché io non ho un bel rapporto con le relazioni nuove in cui ti devi mettere in gioco e sinceramente le persone del Paides erano dei nemici perché mi rendevo conto che mio figlio era molto attaccato a loro perché in qualche modo avevano reso più tollerante la mancanza della mamma e del papà, che in quel momento non potevano essere presenti e tutelanti per lui.
Poi c’era la fatica di dover scindere il Paides dal Kairos (l’accoglienza residenziale dell’OIKOS dove, al mattino, questa mamma partecipava alla vita della comunità in quanto tossicodipendente, ndr) e non era facile perché in quel periodo stavo facendo un gran lavoro su me stessa.
Accettare di essere stata una figlia in un determinato contesto famigliare è stata per me molto dura. Crescere in questo contesto, diventare un’adolescente e poi precocemente adulta ha supportato in qualche modo il mio essere tossicodipendente.
Io come ho sempre detto, non ho un carattere molto facile, sto abbastanza sulle mie e questo mio modo di fare alcune volte mi fa passare da stronza; con gli educatori del Paides non c’è sempre stato un buonissimo rapporto, anzi forse ancora adesso, alcune volte, c’è un piccolo muro.
Mi è difficile abbassare questo muro, perché i miei giri di testa fanno si che io li veda come quelli che hanno i miei figli e io sono sotto una lente di ingrandimento quasi con la sensazione che più mi avvicino alla fine del percorso e più la lente diventa grande.
La paura che ciò che loro possano relazionare ai tribunale è danneggiante per me come madre, quindi per un po’ sono andata avanti con la pretesa che loro non vedessero mai la parte fragile di mamma. Io dovevo essere sempre pronta ad accogliere mio figlio quando rientravo dal Kairos dovevo avere la situazione sotto controllo.
Fino a quando non arrivò la prima di una lunga serie di batoste: prolungamento dell’affido di mio figlio. Lo psicologo che faceva la valutazione genitoriale aveva ritenuto me non idonea a fare la madre. Io non ricordo con molta lucidità quel giorno, ma ricordo che al rientro in accoglienza Gianni era lì pronto a rassicurarmi che avrebbe fatto il possibile con Fabiana per cambiare le cose. Non riuscivo ad ascoltare, ero arrabbiata, delusa, stanca di dover lottare per dimostrare non so a chi che io amo i miei figli.
Avevo sbagliato nella mia vita e nulla giustificava ciò che avevo fatto, ma anche io come altri avevo il diritto di riscattare la mia vita. Quel pomeriggio ricordo avevo la visita di mio figlio: mi sentivo stordita di quello che era successo, me lo sono tenuta affianco al mio viso per molto tempo volevo cercare di trasmettergli tutto l’amore possibile nella peggiore eventualità, volevo che lui sapesse quanto soffrivo lontano da lui ed il fratello.
Il tempo della visita volava e di nuovo dovevo affrontare il distacco da mio figlio per darlo a delle persone sconosciute, anzi nemici.
Odiavo quelle persone perché in quel momento avevano la fortuna di vedere mio figlio alle prese con la prima pappa, i primi passi e le vocali. Usavo loro come capo espiatorio, ma in realtà non riuscivo a guardarmi allo specchio perché sapevo di poter incolpare solo me stessa.
Inizialmente il tribunale aveva vietato l’incontro con me e questa famiglia, poi le circostanze sono cambiate e sia io che loro abbiamo dovuto cambiare le posizioni: io sicuramente ho fatto una gran fatica a mettere da parte ogni risentimento e a capire che loro cercavano di creare per mio figlio una condizione più tranquilla possibile.
Non avevo idea di quello che sarebbe successo in futuro, cercavo di andare avanti giorno per giorno, non chiedendomi mai del domani.
Presto fui costretta a chiedermelo perché si parlava di un passaggio graduale di mio figlio alla Paides: è stato anche questo un momento molto difficile per me e i miei figli.
Un periodo pieno di conflitti fra me e la famiglia d’affido, perché avevo la sensazione che non volesse ridarmi più mio figlio, quindi tutte le volte che lo portava via avevo come una fitta nello stomaco con la paura di non rivederlo; finalmente arrivò il decreto con il trasferimento immediato di mio figlio alla Paides.
Ho ringraziato il Signore e mia madre dicendo a me stessa che c’era una giustizia divina, non mi ero resa conto che in realtà io e mio figlio nonostante la continuità delle visite, eravamo due estranei: io non conoscevo le sue abitudini i suoi rituali per dormire la sera.
Ricado nel panico, ma al mio fianco, come da tre anni, avevo persone pronte a capire il mio disagio ed aiutarmi ad affrontarlo: parlo di tutto ciò che mi metteva ansia e paura della competizione tra me e loro, del giudizio di mio figlio verso una realtà totalmente diversa da dove proveniva e riuscire a chiedergli scusa, capivo che fosse arrabbiato perché non percepiva il perché lo avevo costretto a tanti cambiamenti che lui non aveva chiesto.
Ancora una volta Fabiana e gli operatori della Paides sono stati pronti ad accogliere la ragazza in difficoltà e anche la mamma in difficoltà. In questa fase di percorso nella mia crescita di progettualità i miei punti di riferimento sono cambiati in modo molto repentino e ripetuto: l’unica ancora di salvezza che ancora persiste nel mio cammino è Fabiana.
Sì è vero, con lei ho avuto anche molti scontri, alcune volte ho dovuto accettare decisioni che ho quasi subito e la rabbia dentro di me cresceva mettendo a rischio il lavoro fatto fino a quel momento. Sicuramente mi sono messa io stessa nella condizione di tradire la fiducia che lei aveva riposto in me, portandomi fin qui e andando contro decisioni che avrebbero potuto dividere me dai miei figli. Adesso con il senno del poi mi rendo conto che avrei potuto concedere un po’ di più alle persone che hanno dimostrato per me stima e fiducia.
C’è stata una situazione in cui io non sono stata in grado di poter gestire il mio essere donna e mi sono fatta travolgere dai sentimenti che in qualche modo hanno distratto o assorbito la mia attenzione, allontanandomi per un breve periodo dai miei figli. È vero mi sono messa contro tutto e tutti per portare avanti le convinzioni e scelte.
Lo so posso aver deluso perché tutti si aspettavano altro da me.
A mie spese è venuto fuori tutto, anche se il provvedimento adottato è stato duro e mirato secondo me, affinchè mi scuotesse a malo modo, ossia l’allontanamento dalla Paides e sospensione dal programma.
Non so quale delle due ho accettato di buon grado, nessuna penso: un fallimento.
Caduta l’immagine della donna infallibile, la mia famiglia avrebbe continuato a starmi al fianco? Cosa raccontare ai miei figli? Li avrei delusi di nuovo, non sapevo come affrontare questa situazione ed ancora una volta gli educatori della Paides l’hanno affrontata con me.
Poi la morte di mio padre, il sapere che era in ospedale in fin di vita, mi ha disarmato: non sono più stata in grado di portare avanti ciò che mi ero ripromessa.
Sono andata a trovarlo e mi sono raccontata che potevo ricominciare per me per i miei figli, dicendo che potevo mettere da parte ogni risentimento verso tutto quello che in passato era successo, ed invece di nuovo un abisso fra me e loro.
Qui finalmente ho capito che non potevo cancellare il passato, gli scheletri nell’armadio non si possono tenere, perché quando meno te lo aspetti si aprono e non rientrano facilmente.
Il mio progetto iniziale era ricongiungere la famiglia.
Durante il percorso, anche se a malincuore, assumendomi le mie responsabilità, ammettendo che il rapporto con il mio compagno era basato sulla tossicodipendenza e che forse ci accomunava il desiderio ossessivo di cercare, io una figura maschile, che anche se non completamente mi dava sicurezza e per quanto riguarda lui, una figura femminile molto forte, che le rappresentava l’accudimento materno.
Quando capii questo, feci lunghe chiacchierate con Gianni (il responsabile della CT dell’OIKOS, ndr) sulla posizione da prendere e mi ricordo come fosse adesso che mi disse che avrei allungato di molto il mio percorso e la strada sarebbe stata tortuosa e conflittuale.
E cosi tutt’ora è rimasta: a mio rammarico non riesco a cambiarlo e i miei figli ci si trovano nel mezzo.
I familiari dalla parte paterna sono stati sempre presenti e sono un punto di riferimento per i miei figli molto forte, anche se alcune volte, visto il loro carisma, siamo stati costretti a fermarli e limitarli.
Non nego che non mi è stato facile alzare paletti con loro, perché comunque soprattutto mio suocero è stato presente nel mio percorso terapeutico.
Tutto questo ha fatto sì che si creassero relazioni invischianti per me e i bimbi. Dover affrontare da parte mia anche loro, nonostante il mio attaccamento, dirgli che fra me e il mio compagno era finita, lo so forse e dico forse, perché penso che la mia sia stata una forma di rispetto per un nonno che stava costruendo nell’immaginario il suo futuro con me, il mio compagno ed i nipoti.
Io credevo e credo tutt’ora in questa relazione, che mi ha fatto fare delle scelte e nonostante le conseguenze subite porto avanti questo rapporto con coerenza e costanza, dimostrando a tutti che i sentimenti non erano falsati dalla comunità.
Ciò vuol dire che quello in cui credo e che anche se a fatica sto facendo, accresce la mia autostima. Io mi rendo conto che la mia scelta ha prolungato il mio percorso, perché dalla fase di rientro sono tornata in accoglienza, cercando di ricostruire il mio cammino e capire i meccanismi forse di superbia o di orgoglio che metto in atto.
Oppure riuscire a dire a chi mi sta accanto cosa sta accadendo, qualcosa che non riesco più a controllare; è difficile chiedere aiuto, divento giudicante verso me stessa e vado avanti affinché non trovi una valvola di sfogo.
Allora è troppo tardi per dire avevate ragione, è dura guardare negli occhi le persone che finora hanno cercato di proteggerti o di metterti in guardia e ammettere di aver valutato male, non aver ascoltato, per paura che qualcuno avesse messo dei limiti al tuo provare o non avrebbe capito.
Forse devo dire grazie anche a questo rapporto se adesso sono qui di fronte a voi, perché anche questo legame allora è andato a chiudere dei vuoti che nessuno avrebbe mai riempito, e fatto sì che non pensassi all’eroina nei momenti più difficili.
Io credo di essere una buona mamma, anche se io avrei voluto la perfezione, ma qualcuno dice che la perfezione non c’è in una mamma, che anche loro sono infallibili e agli occhi dei figli sono più vere e più reali; quasi quasi comincio a credere alla persona che per 3 anni me lo ha ripetuto allo sfinimento.
Fortunatamente anche se con mille difficoltà e pensieri ancora riesco a percepire i bisogni dei miei figli: ho sempre creduto che la cosa più semplice sia parlare con loro.
I miei figli da questa esperienza credo ne vengano fuori con molte note a loro favore, anche se mi rendo conto che da grandi mi potrebbero dire che non l’hanno chiesto.
Io mi sto impegnando a far sì che loro abbiano una mamma ed un papà, anche se non sono sotto lo stesso tetto, ma due genitori che amino i figli allo stesso modo, disposti a mettersi in gioco e dire ciò di cui i nostri figli hanno bisogno e stare attenti che i nostri conflitti non vadano a danneggiare la loro tranquillità e una crescita sana.
Non so se questo sarà mai possibile, ristanno facendo incontri di mediazione, quindi forse si potrà migliorare, posso dire che da parte mia l’impegno e la disponibilità la sto mettendo per il futuro dei miei bimbi.
Sono arrivata fino a qui grazie a persone con cui ho condiviso 3 anni lunghi e pieni di dolori e gioie: ho costretto quasi la mia famiglia a fare comunità e nonostante questo sono sempre stati al mio fianco, battendosi per me e hanno sempre creduto in me, che avrebbe potuto camminare a testa alta e non furtivamente dietro qualche cespuglio con una siringa nel braccio.
È anche verità che alcune lacune del mio carattere sono rimaste e durante il mio quotidiano di vita dovrò riuscire a smussarle, che non amo troppo le relazioni con cui mi devo mettere in gioco per paura di rimanere scottata o tradita. Sicuramente il mio cammino è ancora molto lungo e questa fase, anche se chiamata sgancio, per me sarà un inizio di una vita completamente nuova con i miei figli.